Il lutto: la prospettiva del sanitario
Il lavoro nei contesti sanitari che accolgono pazienti aventi diagnosi di malattie croniche o aventi una qualsiasi condizione che li rende vicini alla terminalità è ad alto rischio di burnout, ovvero, espone gli operatori ad uno stress elevato dovuto alla continua gestione di emozioni negative e usuranti, per la quale si necessita di una buona capacità di fronteggiamento delle difficoltà, resilienza e di autoregolazione emotiva costante.
In questi contesti, diventa fondamentale fare affidamento su una salda equipe multidisciplinare che legittimi ai suoi componenti il riconoscimento e l’espressione del sentire il disagio come una forma di sofferenza fisiologica. Spesso gli operatori che lavorano presso determinati presiti sono esposti a temi di natura esistenziale quali: la morte, il dolore, la perdita delle autonomie, la dignità umana, la solitudine, la perdita e la sofferenza in generale.
L’operatore eccessivamente coinvolto e l’operatore eccessivamente distaccato
Talvolta, la tecnica, la competenza e la professionalità che contraddistingue l’operatore sanitario non prevede un’educazione emotiva e cognitiva idonee a permettere agli stessi di riconoscere, elaborare, gestire ed esprimere i propri vissuti emotivi e cognitivi connessi alle tematiche dolorose che inevitabilmente caratterizzano il lavoro di tutti i giorni. Spesso, accade che l’operatore possa vivere una sorta di ambivalenza caratterizzata dalla co-presenza di due stili di fronteggiamento:
- Fondersi con il malato al fine di empatizzare con la sua sofferenza;
- Distaccarsi dal malato per non lasciarsi opprimere dalla sua sofferenza.
Da una parte, l’operatore è abituato, giorno dopo giorno, a prendersi cura del malato, a stare a contatto con il suo dolore fisico e psicologico, a sentire le richieste di aiuto, ad osservare le sue ferite e a cercare il più possibile di prendersene cura al fine di alleviarle, per ciò che è possibile. Tale esperienza, potrebbe innestare una sorta di fusione con il dolore e con la sofferenza dell’assistito che impedisce la presenza di un sano limite tra sé e l’altro, condizione fondamentale per le professioni di cura.
Dall’altra, la paura di essere a contatto con il dolore cronico, con le invalidanti condizioni del malato e con la possibilità molto realistica di poter interrompere la relazione terapeutica da un momento all’altro con lo stesso, potrebbe portare l’operatore a dissociarsi dal suo stesso ruolo, depersonificando l’assistito, svuotandolo di qualsivoglia caratterizzazione umana al fine di allontanare il dolore o la frustrazione della perdita. In entrambi i casi, il rischio è quello di ostacolare una buona riuscita del proprio operato e di sviluppare condizioni di burden.
Ciò che, purtroppo, il sanitario non troverà quasi mai sui libri che caratterizzeranno la sua formazione e preparazione al lavoro, è la risposta al come si possa acquisire una buona capacità di sintetizzare le suddette modalità di fronteggiamento dello stress lavoro-relato. È necessario sviluppare la capacità di riflettere sui pensieri automatici negativi attivati dal proprio ruolo professionale o da situazioni specifiche che si sviluppano nel proprio contesto lavorativo, le emozioni connesse ed i comportamenti emessi al fine di gestire, controllare o evitare alcuni stati psicologici dolorosi.
In altre parole, lavorare in contesti in cui il proprio lavoro consiste nel prendersi cura delle sofferenze dell’altro implica necessariamente avere la capacità di prendersi cura, prima di tutto, delle proprie sofferenze.
La crisi del professionista sanitario
La sfida del professionista sanitario consiste nel “funzionare in maniera sana in una situazione folle”. La rottura con il proprio ruolo professionale o la crisi esistenziale sul proprio operato può dipendere da determinati eventi. Poniamo il caso che ci si imbatta in un errore professionale. L’errore nel contesto sanitario può essere causato dall’alto carico di stress, dalla negligenza, da difficoltà decisionali o dall’estrema difficoltà ed imprevedibilità di una situazione.
È fondamentale chiedersi che significato ha assunto quell’errore nel vissuto della persona che lo ha commesso. Spesso, può capitare che errori, anche banali, commessi in contesti così delicati e fragili possano mettere in dubbio l’appartenenza ad una categoria professionale. Pensieri automatici negativi tipici possono essere: “sono un pessimo operatore”, “non sono buono a nulla”, “dovevo salvarlo”, “se fossi stato bravo, lo avrei salvato”.
Tali pensieri attivano reazioni emotive di angoscia, frustrazione, senso di colpa, senso di impotenza, perdita di speranza, tristezza, rabbia e ansia. In altri casi, può capitare che la sofferenza, il vissuto o le emozioni dell’assistito siano trigger attivanti di vissuti ed emozioni personali dell’operatore. Ad esempio, il lutto improvviso di un anziano, può rievocare il ricordo della morte del proprio genitore o la comparsa di un delirio di persecuzione in una sindrome dementigena può attivare la paura che un genitore sia prossimo allo sviluppo della demenza. Anche in questo caso, l’indicazione è sempre quella di riconoscere, elaborare e condividere in gruppo le proprie esperienze personali.
Uno dei grandi stereotipi caratterizzanti questo ruolo lavorativo è l’idea che il professionista sanitario è colui che aiuta chi è in uno stato di bisogno. Si tratta di una dissociazione rispetto al proprio essere persone di natura umana che porta l’operatore a riconoscersi come colui che da aiuto non come colui che ha anche il diritto ad avere aiuto o ancora come colui che da agli altri ciò di cui hanno bisogno, negandosi il diritto ad avere anche egli dei bisogni.
Conclusioni
Il lavoro del professionista sanitario è un lavoro emotivamente intenso e duro. Richiede competenze non solo tecniche e scientifiche ma anche di natura psico-emotiva. È fondamentale che, all’interno del contesto di lavoro, sia presente una cultura organizzativa validante ed empatica che normalizzi le emozioni ed i pensieri che fisiologicamente possono insorgere in tale contesto e che sia pronta all’ascolto ed alla condivisione di queste ultime.
Instaurare relazioni di supporto significative tra colleghi in questi contesti permette anche di incrementare la propria competenza professionale perché aiuta lo sviluppo di capacità utili alla comprensione della sofferenza dell’altro.
Dott.ssa Jessica Pisani
Bibliografia
Pezzullo, L., & De Beni, R., (2017). La fine della vita e il morire. In R. De Beni, e E. Borella, Psicologia dell’invecchiamento della longevità (pp. 435-456);