Perchè se mi fermo mi viene l’ansia?

Perchè se mi fermo mi viene l’ansia?

“Sono sempre in attività. Le mie giornate sono sempre molto piene, ho mille impegni e mi piace averne. Non amo perdere il mio tempo sul divano, non lo trovo produttivo. A fine giornata sono sempre orgogliosa per aver fatto tanto, certo un po’ stanca, ma credo sia normale.” Laura, 39 anni.

Correre, correre, inserire una dopo l’altra le cose da fare, massimizzando la produttività, poi terminare la giornata con un senso di stanchezza misto alla soddisfazione di esserci riuscito/a, di aver dominato lo stress, lo sfinimento, il bisogno di riposo. Attraversare le giornate una dopo l’altra, in una costante attivazione sensoriale e corporea, senza porsi domande.

Fermarsi cosa implicherebbe?

Alcune delle risposte più probabili: “Se non le faccio io queste cose chi le fa?” oppure “Non vedo perchè dovrei perdere tempo” oppure “Non posso permettermelo” o ancora “Mi piace troppo, mi fa sentire di aver vissuto!”.

Altre volte invece riconosciamo di “fermarci”, ma….: “Io mi fermo, mi metto sul divano e vedo un film mentre scrollo i social“. Si tratta, in questo caso, di una falsa pausa, in quanto benché il corpo sia sostanzialmente fermo, il cervello non solo resta attivato, ma deve sforzarsi comunque molto per svolgere due compiti simultaneamente. Il risultato? Non si è davvero connessi, presenti, in nessuno di essi.

Scavando un po’ più a fondo -cosa che accade solitamente in psicoterapia- è il paziente stesso che confessa: “Se mi fermo sento l’angoscia“, “Se mi fermo vado in ansia” o “sento il vuoto/mi sento vuoto“.

Fermarsi, infatti, ci riporta in contatto con noi stessi, ci pone in ascolto delle emozioni, di come ci sentiamo, di ciò che temiamo, dei nostri bisogni emotivi mai soddisfatti o ancora, di ciò che pensiamo davvero di noi. Ci pone faccia a faccia con noi stessi, con il nostro sè autentico, con tutte le sue fragilità.

L’importanza di ascoltarsi

Ogni essere umano adulto dovrebbe aver sviluppato un’adeguata capacità di entrare in contatto con se stesso, con le proprie paure e contraddizioni, ascoltarsi, comprendere ed accogliere le proprie umane e legittime fragilità.

Se (per motivi rintracciabili nella propria storia di vita, aspetto che spesso viene compreso in un contesto terapeutico) questo non avviene, il soggetto impara che il proprio mondo interno è spaventoso, pieno di emozioni e cognizioni troppo dolorose ed ingestibili, per questo va trattato come un abisso da “tappare”, chiudere, celare.

Ecco che egli scopre che correndo, impegnandosi, tenendo in uno stato di attivazione costante corpo e cervello, sta bene. Così, lo adotta come comportamento reiterato che, con il tempo diventa “il mio modo d’essere“, diventa “Mi piace avere la giornata piena!“, diventa il “mi sento vivo/a!“.

Quando costituisce un problema?

Se questa modalità iper-attivata consente allo stesso tempo il rispetto dei bisogni fisiologici primari (ad esempio una buona qualità e quantità di sonno, un’alimentazione completa ecc) ed un sostanziale equilibrio personale, non costituisce di per sè un problema.

Nell’eventualità, invece, in cui dovessero presentarsi (come a volte accade) sintomi d’ansia acuta e/o attacchi di panico o si dovesse avvertire una minore necessità di dormire o alimentarsi, ad esempio (“Dormo due/tre ore a notte“, “Non ho mai tempo di mangiare, consumo qualcosa al volo o salto i pasti“), sarebbe opportuno richiedere un consulto presso un professionista psicoterapeuta. Si tratta, quasi sempre, del contenuto dell’ “abisso” che necessita di ascolto ed elaborazione: un terapeuta può aiutarvi a farlo in sicurezza, con inevitabili ricadute positive sul vostro benessere.

Dott.ssa Giannalisa Colasuonno

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